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  • Recensione film: La donna che canta
  • Recensione film: La donna che canta

    L'orrore della guerra civile

    Published by darkglobe on 01-Oct-2014 01:00 (725 reads)

    È all’omonima opera teatrale del 2003, scritta dall’icona Wajdi Mouawad, libanese emigrato a 10 anni in Bretagna e di seguito in Canada, dove si è diplomato presso la Scuola nazionale di teatro, che fa riferimento questo inquietante film sul dolore e le crudeltà umane. Presentato nel 2010 al Festival del Cinema di Venezia (Menzione 27 volte cinema), premio come miglior film canadese al Toronto International Film Festival e candidato per il Canada al premio Oscar 2011, è stato diretto dal regista canadese Denis Villeneuve.
    Si tratta di un film coraggioso per due motivi: in primo luogo portare un’opera teatrale al cinema è sempre una scelta rischiosa, se la trasposizione non riesce a sfruttare le potenzialità spazio-temporali offerte dal mezzo cinematografico; in secondo luogo non è semplice ambientare una storia così dolorosamente intima in un contesto complicato e per certi versi criptico quale quello delle vicende storico-politiche libanesi relative alla guerra civile degli anni 70, che ha trasformato un paese in cui regnavano tolleranza e multi-etnie in un luogo di dolorose nefandezze umane. Eppure Villeneuve ci riesce, senza la necessità di soffermarsi visivamente su tutte le atrocità raccontate, molte volte lasciandole semplicemente intuire.
    Tutto inizia con la strana fine di Nawal Mawal (Lubna Azabal, attrice già nota per aver interpretato il film politico palestinese del 2006 Paradise Now), già morta all'inizio del film, il cui testamento viene letto, nello studio del notaio Jean Lebel (Rémy Girard), ai due figli canadesi Jeanne (bravissima Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette). Si comprende da subito che i figli sanno poco del passato della madre e nulla del proprio padre; ma se da un lato Jeanne sembra interessata a capirne di più, l’atteggiamento del fratello è di profondo rifiuto e disprezzo per una madre che è sempre stata assente. Il notaio annuncia loro che il padre è ancora vivo e che hanno anche un fratello di cui ignoravano, del tutto stupiti, l'esistenza. Ai due figli la madre chiede, tramite il notaio per cui ha fatto per vent'anni da segretaria, di cercare i parenti prossimi - forse sono ancora in Libano - e consegnare singolarmente due lettere da lei scritte: solo se i due figli riusciranno a trovare i propri parenti, allora Nawal potrà essere seppellita in cimitero con una lapide che ricordi il suo nome. Jeanne decide di partire per il Libano con una foto della madre che pare riferirsi ad un luogo del sud del paese. Le indagini scorrono ed il regista sfrutta un incalzante e riuscito gioco di presente e flashback, lungo il quale dipanare una storia traumatica, da un lato di ricerca di una verità intesa come liberazione dagli incubi del passato incombente e di anelito verso un sentimento universale di pacificazione e tolleranza; dall’altro di un travagliato e dolorosissimo percorso di trasformazione di una donna cristiana in una dissidente politica, la quale, dopo aver assistito a sconfinati episodi di crudeltà, si ribellerà nel più duro dei modi, subendone poi gravi conseguenze con la carcerazione, a cui farà orgogliosa resistenza nonviolenta col suo canto, e le relative violenze, solo al termine delle quali potrà scappare in Quebec.
    Durante la sua ricerca in Libano Jeanne chiede al fratello di raggiungerla e con quest’ultimo arriverà anche il notaio Lebel che li aiuterà nella scoperta finale della sconvolgente verità che ha causato alla madre un ictus e la succesiva morte.
    Il tema è quello dell’orrore della guerra civile fra etnie, nel quale non esiste alcuno spazio per la pietà ed in cui perfino i bambini sono annichiliti da colpi di pistola o addestrati come macchine di violenza pura. E su tutto domina il ritratto di una donna coraggiosa, simbolo di umiliazione e ribellione ad un mondo disintegrato da una crudeltà cieca ed inumana che non risparmia nessuno e non lascia spazio alcuno alla pietà o al riconoscimento del prossimo e del suo diritto ad una esistenza indipendentemente dal proprio credo e dal proprio luogo di nascita.


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