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  • Recensione film: Femmina ribelle
  • Recensione film: Femmina ribelle

    Ribelle ma non troppo

    Published by darkglobe on 18-Feb-2015 01:00 (871 reads)

    Film di Raoul Walsh tratto da un romanzo di di William Bradford Huie, è la storia, ambientata durante la seconda guerra mondiale, della cantante ed accompagnatrice Mamie Stover (Jane Russell in un ruolo inizialmente pensato per Marilyn Monroe): lei, cacciata da San Francisco, intende a tutti i costi raggiungere l’agiatezza economica e si imbarca su una nave per Honolulu, dove conosce lo scrittore, Jim Blair (Richard Egan) a cui confida le proprie ambizioni. Lo scrittore cerca di convincerla ad avere obiettivi meno prosaici, ma, finito il viaggio, lui viene accolto dalla sua Annalee (Joan Leslie) e lei trova lavoro in un club, un localaccio dei bassifondi, sorta di casa di tolleranza con varie giovani meretrici, diretta da Harry Adkins (Michael Pate), di cui è proprietaria la arcigna Bertha Parchman (Agnes Moorehead). Mamie col tempo guadagna tanto da poter restituire finalmente a Jim i soldi che lui le aveva prestato prima che i due si perdessero di vista, e lo invita al club.
    Quando i due si reincontrano è amore: Jim però si arruola per Pearl Harbor, ma convince Mamie a sposarlo quando sarà finita la guerra e a lasciare il club. La terribile Bertha licenzia però Harry e, temendo la perdita della più grande attrazione del club, promette a Mamie di farla diventare una stella, offrendole la metà dei profitti. La donna accetta, ma Jim viene a saperlo. Quando, in convalescenza per l’esplosione di una bomba, lo scrittore torna da Mamie, comprende che le loro vite sono troppo diverse…
    Film minore di Walsh, superficiale e per certi versi scontato. Il muscoloso Egan, pur se bravo, sembra scarsamente adatto ad interpretare la parte del giovane scrittore afflitto dalle pene d’amore per la peccaminosa entraineuse, mentre la Russell sfoggia essenzialmente la sua scultorea e squadrata bellezza in varie forme estetiche: la coppia non è dunque sufficiente a risollevare le sorti di un film che vive la classica dicotomia tra il contenuto della fonte (il romanzo) ed il prodotto finale, sceneggiato e tarpato dalle forbici della (auto)censura; nonostante tutto, si insinua subdolamente quasi una celebrazione paterna dell’antico glorioso mestiere di intrattenimento e consolazione dei giovani marinai, all’interno di un pollaio dal quale, come ha osservato qualche critico, Almodovar avrebbe tirato fuori uno dei suoi immaginifici capolavori cinematografici. Molto bella la resa del Technicolor.


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